Intervista a Valerio Terreri: di game design e di serious game – prima parte
Come si crea un videogioco? Che caratteristiche hanno i “serious game”? Abbiamo chiesto a Valerio Terreri, game designer.
Da dove nasce il tuo desiderio di dedicarti ai videogame?
Nasce da una passione viscerale che è cresciuta con me. Come è successo a molti ragazzi più o meno della mia età, ho iniziato a giocare a videogiochi da bambino, quando questi si trovavano ancora nei negozi di giocattoli, in mezzo a Masters, Exogini e Hot Wheels. Con gli anni ho visto i videogiochi spostarsi di scaffale, diventare un intrattenimento anche per adulti e adattarsi ai miei gusti man mano più maturi. I videogiochi per me sono come un amico di infanzia con cui spesso mi confronto.
Ad un certo punto ho deciso che questa passione potesse diventare un lavoro, o almeno che ci avrei provato per giustificare tutti i soldi che ci spendevo dietro!
Qual è stato il tuo percorso formativo?
I primi passi, in parte inconsapevoli, verso questo settore li ho mossi nel 2006, quando ho iniziato un corso di modellazione e animazione 3D. Durante questo periodo, dovendo scegliere uno sbocco lavorativo, mi sono accorto che lavorare nel settore dei videogiochi mi avrebbe consentito di essere a contatto anche con altre mie passioni, come il cinema e la musica. Penso infatti che i videogiochi siano un medium complesso che ha a che fare con diversi altri media, per questo quando si parla di videogiochi molto spesso si parla di intermedialità. Insomma, mi piace l’idea di poter pasticciare un po’ con tutto.
In seguito ho frequentato un primo master allo IED di Roma in videogame design, il cui responsabile era Riccardo Cangini, uno dei nomi più importanti dell’industria italiana dei videogiochi. Ho avuto quindi occasione di trovarmi uno stage a Koala Games, dove ho conosciuto Ivan Venturi, altro nome storico del made in Italy. Con lui ho iniziato una collaborazione che è andata avanti per due anni, e che mi ha coinvolto in diversi campi dello sviluppo di un videogioco. Devo molto a Ivan, fra le altre cose di avermi fatto conoscere il mondo dei serious games: Koala Games (ora TiconBlu)infatti si occupa da anni principalmente di videogiochi educativi e didattici.
Nel frattempo ho approfondito gli studi, leggendo libri e facendo un altro master a Genova, interno alla Facoltà di Ingegneria dell’Università, nel 2010. Il responsabile era Piermarco Rosa, noto giornalista videoludico (ha scritto per testate importanti come The Games Machine e ConsoleMania) nonché producer della Gameloft, quando questa aveva una sede di sviluppo a Milano. Al momento Piermarco è anche Executive Manager presso Serious Games Society.
Alla fine sono arrivato alla posizione che ricopro adesso, di game designer e 3D artist per CoRehab, start-up trentina che ha come obiettivo la realizzazione di un videogioco per la riabilitazione fisica.
Ti diverte di più raccontare storie o creare ambienti?
A me piacerebbe creare storie; penso che raccontare sia una necessità dell’uomo e chi può vivere facendolo sia molto fortunato . Per questo dovendo scegliere un nome per il mio sito ho scelto Jar of Tales (barattolo di storie). Da giocatore, non da designer, posso aggiungere che preferisco i giochi che hanno una struttura narrativa di un certo spessore. In poche parole, a un PES (Pro Evolution Soccer) preferisco un’avventura grafica. Poi sono molto attento al taglio cinematografico dei titoli, mi piace vedere la mano del regista anche nei videogiochi. In questo senso, molte grosse produzioni si avvalgono della collaborazione di esperti cinematografici.
E qui ci ricolleghiamo al tema dello storytelling…
È un argomento molto affascinante e complesso. La discussione è aperta. E mi fa venire in mente Heavy Rain, il cui designer, David Cage, ha una concezione del videogioco da sempre molto personale, sicuramente cinematografica: vede il gioco come un’esperienza interattiva, e i suoi videogiochi (Omikron: The Nomad Soul e Faherenheit) sono molto simili a un film, tanto che Heavy Rain ha subito delle critiche perché “si gioca poco” e “si guarda tanto”. La storia è al centro di tutto, non c’è un game over, non c’è modo di morire, ma si può vivere la storia in un modo piuttosto che in un altro. A livello di grosse produzioni è uno dei casi più interessanti di storytelling degli ultimi anni, sicuramente uno dei più discussi. Nel mondo dei videogiochi si dice che un buon designer debba partire dalle meccaniche di gioco. In Heavy Rain secondo me si è invece partiti da alcune sensazioni ed emozioni che Cage voleva trasmettere al giocatore/spettatore, in questo caso non so esattamente come chiamarlo.
Quali sono i tuoi riferimenti nel settore dei videogiochi?
Questa dovrebbe essere una domanda facile, ma in realtà non lo è affatto. Una volta ero sicuramente molto attratto dalle grosse aziende; nomi come Lucasfilm, Nintendo, SEGA, CAPCOM, Konami, facevano la differenza quando dovevo spendere i miei sudati risparmi per un videogioco. Ora invece sono più prudente e aspetto un attimo prima di esaltarmi, e non solo perché ho un’età diversa e vedo tutto dall’ottica di chi lavora nel settore, credo che sia proprio una questione di mercato. Ormai da anni i videogiochi battono cinema e musica in termini di fatturato e questo purtroppo paradossalmente ha avuto delle conseguenze sulla qualità dei titoli. Se, infatti, da una parte i videogiochi sono sempre più spettacolari e tecnologicamente esaltanti, dall’altra sono sempre meno originali e più aridi in termini di gameplay, questo perché quando ci sono di mezzo tanti soldi non ci si può permettere il lusso di sbagliare.
Ultimamente quindi mi sollazzo soprattutto con titoli provenienti dalla scena indie. L’industria tripla A è sempre più povera di idee, e per paura di clamorosi flop commerciali non fa altro che propinare sequel che francamente hanno stancato. Per questo motivo molti punti di riferimento che ho adesso come game designer fanno parte del mercato indipendente. Quindi, per fare dei nomi, agli storici e imprescindibili Ron Gilbert, Shigeru Miyamoto , Yu Suzuki e Hideo Kojima oggi affiancherei Fumito Ueda, Johnathan Blow, Edmund McMillen, Jenova Chen, rispettivamente i creatori di ICO, Braid, Super Meat Boy e Journey.A livello di software house invece, al momento mi piacciono molto Kleit Entertainment, Amanita Design, Doublefine (dove lavora il mitico Tim Schafer) e Telltales.
Per te l’unione di quali elementi caratterizza la bellezza di un videogioco?
Io mi occupo anche di grafica 3D, ma nonostante questo, esteticamente parlando, in un videogioco non ricerco l’eccellenza tecnologica, piuttosto rimango affascinato se un titolo ha uno stile personale. Ovviamente se la grafica è bella la noto, ma non mi interessa tanto vedere quanti poligoni ci sono sullo schermo, preferisco essere conquistato dal mood del gioco e dalla sua atmosfera. Detto questo, gli elementi che sicuramente mi catturano di più sono meno in superficie e sono legati alle meccaniche di gioco e alla struttura narrativa.
Quali sono le professionalità coinvolte nella produzione di un videogame?
Cambia molto dal tipo di produzione. Ci sono videogiochi sviluppati da una sola impavida persona, che inevitabilmente finisce con il ricoprire più posizioni, e altri sviluppati da svariate decine di persone, estremamente specializzate. Se si considerano anche i collaboratori esterni e i tester il numero può salire vertiginosamente. Diventa difficile quindi rispondere a una domanda del genere, senza entrare nello specifico. Tuttavia possono essere individuati alcuni settori comuni al processo di sviluppo di un videogioco, settori coperti da un numero indefinibile di figure specializzate, che varia a seconda del progetto e del budget a disposizione. I principali sono: produzione, design, arte, audio, programmazione, marketing e testing.
Volendo scendere più nel dettaglio, il Producer e il Project Menager si occupano degli obiettivi e dei tempi di sviluppo, e sono quelli che prendono le decisioni importanti. Il Designer si occupa dei documenti relativi a qualsiasi aspetto del videogioco (per questo non è difficile che ci siano più designer specializzati che lavorano insieme), crea le meccaniche di gioco ed è il punto di riferimento del team di sviluppo. Il Level Designer costruisce i livelli di gioco, questo vuol dire che implementa specifici aspetti del gameplay in una determinata sezione del progetto ; il suo compito principale è quello di mantenere il gioco sempre divertente, quindi mai frustrante né noioso.
Adesso che la maggior parte dei giochi sono sviluppati con grafica tridimensionale, i 3D Artist vanno ad affiancare gli altri artisti, come il Conceptual Artist, coinvolti nella produzione di bozzetti di studio, storyboard e illustrazioni varie; così abbiamo il Character Artist che crea i modelli 3D organici mentre l’Environment Artist si occupa della creazione degli ambienti 3D. Il Sound Designer insieme al Composer si occupa di tutte le musiche e di qualsiasi effetto audio. I Programmatori rendono possibile qualsiasi cosa precedentemente pensata, mettendo insieme tutto e dando vita al gioco.
I Tester mantengono sotto controllo la qualità del progetto e segnalano qualsiasi errore in modo tale che possa essere repentinamente corretto; non si limitano a giocare più volte il titolo in fase di sviluppo alla ricerca di bug, contribuiscono anche in maniera sostanziale al bilanciamento del gameplay.
In Italia qual è il panorama della produzione e distribuzione di videogame?
Diciamo che la situazione in Italia è… ridicola. Ci sono sempre i soliti nomi, le solite figure, alle quali comunque va tutto il mio rispetto. Sono nomi che sono riusciti a resistere a un mercato che di fatto in Italia stenta a decollare. Abbiamo poche grandi realtà di respiro internazionale; giusto la Ubisoft e la Milestone, entrambe a Milano. Tutte le altre sono piccole aziende che lottano per non sparire . Va considerato che oggi sviluppare videogiochi è un po’ più semplice, grazie a tool di sviluppo più intuitivi e alla possibilità di lavorare nel campo dei videogiochi e delle applicazioni per smartphone e tablet, sicuramente più abbordabile in termini di investimenti. C’è chi ha trovato il proprio spazio in questa realtà. Però è sempre dura.
Dire quindi che in Italia la situazione non è molto positiva è un eufemismo, e non solo paragonandoci agli Stati Uniti, al Giappone o al Canada, leader del settore, ma anche rispetto a paesi che in teoria dovrebbero essere più “poveri” di noi, come Bulgaria, Romania e Repubblica Ceca. In questo triste contesto, il “serious game” in Italia rappresenta una reale opportunità, per la possibilità di ricevere finanziamenti da enti pubblici come la Regione, e per la natura stessa di questi particolari videogiochi, che al momento non impone un’eccellenza tecnologica, altrimenti molto costosa.
(CONTINUA… )
@catebonora
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